Partire da sé: il politico della cura. Un’elaborazione a partire dal seminario Riproduzione sociale: sguardi, lotte, scenari (Bologna, 2-3 novembre 2024)
Maria Rosaria Marella

Se partire da sé significa anche saper leggere il politico che è nel proprio personale, la vicenda esistenziale della cura dei propri familiari si rivela immediatamente nella sua multidimensionalità, tutta politica, di struttura essenziale per la tenuta della presente organizzazione sociale. Ecco che allora l’esperienza della cura che ciascuna di noi può attraversare evidenzia quanto meno tre diversi livelli, che coinvolgono altrettante soggettività e altrettanti ordini di relazioni:
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la condizione privata (o meglio privatizzata) della caregiver nel rapporto con la/e persona/e destinataria/e della cura, con tutto il carico di isolamento, sfruttamento, coercizione e svalutazione - del lavoro svolto e di chi lo fa - che normalmente a questa situazione si accompagna;
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il disimpegno dello stato - anche in quanto stato-comunità che in virtù di quella stessa cura esiste - verso il lavoro riproduttivo complessivamente inteso e chi lo svolge, senza eccezioni;
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l’entrata in gioco dell’accudimento salariato attraverso le catene globali della cura che alla privatizzazione della cura conferisce una dimensione ulteriore di sfruttamento, traslando la fatica fisica dell’accudimento su soggettività migranti genderizzate e razzializzate con un diretto coinvolgimento delle singole organizzazioni riproduttivo/familiari a monte e a valle della catena.
Il tutto nel quadro di una complessa architettura sociale che nella differenza di genere e nella divisione sessuale del lavoro trova la sua chiave di volta.
Oltre ogni consapevolezza critica, la struttura dicotomica dell’organizzazione sociale, fra produzione e riproduzione, continua però a condizionare fortemente la nostra percezione e la nostra esperienza della cura. In una parola il nostro personale. L’esperienza esistenziale del lavoro riproduttivo non è solo assorbente, pervasiva e sfiancante sul piano fisico, psichico, affettivo e intellettuale, ma è anche vissuta dalla caregiver come una espropriazione della propria vita suo malgrado. Perché anche da chi, da femminista, rifiuta la dicotomia produzione/riproduzione, consapevole della costruzione ideologica che rappresenta - e magari proprio per questo, per il fatto di aver scelto di essere (anche) altro da caregiver, così designata dall’ordine patriarcale - il lavoro di cura è vissuto come isolamento, come un vuoto di relazioni sociali, se non come una condizione coatta, tanto che il lavoro professionale (quello “produttivo”) finisce per contrasto con l’essere identificato con uno spazio di libertà e autorealizzazione… Con il che però noi stesse svalutiamo il lavoro riproduttivo e ricadiamo nella gerarchia che la dicotomia produzione/riproduzione inevitabilmente sottende e che convintamente in principio rifiutiamo.
E del resto non può non essere vissuta come coercizione una enorme, ineludibile questione sociale che è però totalmente assente dal discorso pubblico perché disciplinata e rappresentata come privata - cioè integralmente riversata sulle famiglie (=sulle donne) - quando non totalmente invisibilizzata dall’inesistenza o impossibilità di accedere a misure pubbliche di sostegno e dalle politiche migratorie che rendono irregolare, quindi precaria, rischiosa e maggiormente soggetta a sfruttamento, la condizione delle lavoratrici salariate della cura. In realtà il tema riproduzione sociale vive confinato in una zona grigia, ai margini del sistema di welfare e persino della legalità. Ma il diritto non è affatto estraneo alla sua definizione.
Lavoro riproduttivo è quello che il diritto dice tale
Shirin Rai definisce così il lavoro riproduttivo: riproduzione biologica, inclusi i servizi sessuali, affettivi ed emotivi, la produzione di beni e servizi all'interno della casa e della comunità e la riproduzione della cultura e dell’ideologia, che possono sia stabilizzare sia mettere in discussione le relazioni sociali dominanti. A partire da questa definizione, assumiamo il lavoro riproduttivo come categoria e metodo d’analisi del reale; la prestazione di cura come fondamentale nel determinare i ruoli di genere nella famiglia e, a cascata, nel mercato e nella sfera pubblica.
Il diritto si rivela qui un fattore cruciale, decisivo nel delineare la fisionomia della riproduzione sociale. In particolare, le operazioni del diritto investono la stessa creazione della dicotomia produzione/riproduzione, determinando l’invisibilita’ del lavoro riproduttivo, la sua non misurabilità.
È il diritto che traccia la linea fra produzione e riproduzione separando la famiglia dal mercato quindi anche dal lavoro giuridicamente qualificato. L’archetipo del lavoro riproduttivo è nel “lavoro casalingo” di cui all’ art. 143, 3° co. del codice civile: “Entrambi i coniugi sono tenuti, ciascuno in relazione alle proprie sostanze e alla propria capacità di lavoro professionale o casalingo, a contribuire ai bisogni della famiglia”. È proprio nel regime giuridico della famiglia che il lavoro domestico e di cura acquisisce i caratteri:
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dell’invisibilità: è invisibile perché si perde nel magma della solidarietà familiare, la sua unica dimensione di rilevanza;
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della non misurabilità: al contrario di quello professionale che trova la propria misura nel mercato (il salario, il compenso professionale, ecc.) il suo unico parametro è nel riferimento ai “bisogni della famiglia”;
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della gratuità: in quanto dovuto perché oggetto di un dovere prescritto dalla legge, non è retribuito, non è negoziabile, non è ‘scambiabile’.
Con il che è marcata dal diritto l’estraneità della riproduzione sociale dal mercato e la sua radicale diversità dal lavoro produttivo. Naturalizzazione, non-lavoro, linea del genere emergono sin da subito come concetti chiave nel regime giuridico del lavoro riproduttivo: l’assenza di remunerazione è insieme causa ed effetto del suo statuto di non-lavoro; con ciò esso degrada piuttosto a fatto ‘naturale’, com’è ‘naturale’ che svolgerlo sia compito della ‘casalinga’, dunque della donna anche laddove questa lavori (pure) nel mercato.
L’ispirazione solidaristico-egalitaria della riforma del diritto di famiglia del 1975 abbozza un tentativo di retribuzione del lavoro casalingo con la previsione della comunione dei beni fra i coniugi quale regime patrimoniale di default, non a caso descritto nei libri come regime distributivo. Sennonché è la stessa normativa a disciplinarlo come diritto suppletivo, liberamente derogabile dai coniugi stessi. L’assegno di divorzio diventa allora la vera occasione per riconoscere valore alla cura prestata durante il matrimonio, ma ancora oggi la Cassazione misura l’attività di accudimento svolta dal c.d. coniuge debole (senza connotazione di genere e debole forse per natura) solo in negativo, come causa della perdita di chance reddituali e di carriera nel mercato. E dunque una delle chiavi di lettura per comprendere le operazioni del diritto intorno al lavoro riproduttivo resta la sua non misurabilità.
Il lavoro ‘ riproduttivo’ è una finzione (giuridica)
Tuttavia il confine produzione/riproduzione che il diritto traccia è instabile, poiché il sistema giuridico stesso è su questo punto (come su molti altri) incoerente.
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da una parte, la solidarietà familiare è principio tanto forte da attrarre il lavoro professionale produttivo nella sfera del non-lavoro quando prestato all’interno di una convivenza di fatto, superando persino la presunzione di onerosità che sempre accompagna il lavoro secondo diritto. È quanto si è a lungo registrato nelle decisioni delle corti che hanno dovuto dirimere controversie patrimoniali fra conviventi (ad es. Cass., 3 febbraio 1975, n. 389; Cass., 7 luglio 1979, n. 4221);
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per converso, l’esatto opposto accade quando lavoro produttivo e lavoro riproduttivo sono prestati dai membri della famiglia all’interno di una impresa familiare. Qui troviamo l’eccezione che fa saltare il confine: il lavoro riproduttivo è riconosciuto e remunerato come lavoro e tanto quanto quello produttivo;
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la cura poi diventa un asset familiare misurabile se chi vi provvede subisce un danno all’integrità fisica, o perde addirittura la vita per mano di un terzo: la casistica relativa al danno alla casalinga mostra come il venir meno del lavoro domestico e di cura costituisca una perdita patrimoniale risarcibile in favore dei familiari che ne vengono privati (Cass., 3 marzo 2005, n . 4657). Lo stesso dicasi – ma la casistica è sporadica – per l’ipotesi in cui l’attività sessuale fra moglie e marito sia impedita dall’illecito del terzo (es. medical malpractice): i sexual and emotional services di cui parla Shirin Rai sono trattati come un asset del marito, che per la loro perdita avrà diritto al risarcimento del danno (Cass. civ., Sez. III, 2 febbraio 2007, n. 2311);
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infine un ulteriore spostamento del confine si determina quando il lavoro produttivo diventa il tramite del riconoscimento del lavoro riproduttivo. Ai dipendenti pubblici di determinate categorie è riconosciuto il diritto a chiedere (ma non necessariamente a ottenere) il contributo badanti INPS: attraverso il contratto di pubblico impiego il bisogno di cura cessa di essere allora un fatto meramente privato e familiare per acquisire rilevanza pubblica. Analogamente, il lavoro riproduttivo che è implicito nel congedo per maternità è contrattualizzato e retribuito, dunque attratto nella sfera del vero lavoro, quello produttivo.
Questa estrema instabilità del confine non è casuale. Sta a segnalare come la separazione produzione/riproduzione non sia “nella natura delle cose” e non sia necessitata, ma integralmente ideologica. Il regime giuridico della cura nella famiglia rappresenta il residuo tollerato del patriarcato nella famiglia egalitaria contemporanea; esso è funzionale alla riproduzione del capitale all’intersezione fra capitalismo e patriarcato, nel quadro di una relazione non oppositiva, ma invece di contiguità e complementarietà fra famiglia e mercato.
La dinamica di sfruttamento delle soggettività dedite alla cura si può rappresentare attraverso la metafora proprietaria, ricorrendo al concetto di esternalità, in particolare di esternalità positiva: il capitale si appropria liberamente delle utilità prodotte nella sfera domestica e senza alcuna compensazione. È così che la riproduzione della forza lavoro può avvenire in condizioni di invisibilità e non misurabilità, nel contempo producendo soggettività subalterne, coniugi deboli, partner deboli, e con ciò costruendo relazioni gerarchizzate fra i generi e rapporti di potere eteronormati.


Strategie di lotta (?) dentro e contro il diritto
Ma la stessa incoerenza del sistema che produce questa subalternità può portare a ribaltare il discorso giuridico: se invisibilità, gratuità, non misurabilità, privatezza non valgono sempre, allora possono non valere mai! L’eccezione può essere fatta valere come regola, diventare la regola. Qui pongo una prima questione: la militanza femminista può coniugarsi all’attivismo giudiziario, magari con la creazione di casi-pilota? Nonostante tutto, c’è ancora un- giudice a Berlino.
Ma intanto lo stato di cose presente ha ovviamente pesanti riflessi distributivi in termini di accesso al mercato del lavoro e alla sfera pubblica per coloro che sono preposte all’accudimento. Il peso della cura preclude nei fatti migliori prospettive reddituali e professionali, ma soprattutto rende le attuali o talvolta presunte caregiver attrici meno affidabili e meno appetite nel mercato del loro corrispondente maschile. Con la conseguenza di essere continuamente ricacciate nell’alveo del lavoro riproduttivo informale quale ambito di competenza esclusivo o prevalente. Disoccupazione femminile, gender pay gap, gender gap non sono certo fenomeni dissociabili dalla grande questione della cura.
Non solo. Le dinamiche perverse descritte espongono le caregiver al rischio di depletion, di esaurimento sia fisico che mentale. Esattamente come le pratiche estrattive fanno ai danni delle risorse naturali.
Shirin Rai ha sollevato il problema della depletion, allo stesso tempo ponendo il tema della misurabilità: il lavoro di cura continuativo ed estenuante quale quello richiesto e imposto da questo modello di società alle donne – a molte donne - può risolversi in un danno alla persona? Certamente sì. Anche qui: può questa diventare una strategia di lotta? Possiamo immaginare di inondare i tribunali di azioni risarcitorie delle caregiver informali? Possiamo immaginare una class action delle lavoratrici della cura e la cura stessa come fonte di danno? E soprattutto: chi è il legittimato passivo, cioè chi è/sono il/i soggetto/i danneggiante/i? Se il problema è di sistema – e lo è – la risposta individuale può non cogliere nel segno. Lo stato, le carenze del sistema di welfare non possono non essere tirate in ballo.
E allora, volendo avanzare una prima conclusione e una proposta, si deve contrastare l’invisibilità e la non-misurabilità del lavoro riproduttivo, prima ancora di questionare, come necessario, e provvedere a smantellare la dicotomia produzione/riproduzione. E il reddito di cura può essere una prima risposta. La lotta per il reddito di cura prende allora il posto della rivendicazione del salario per (o contro!) il lavoro domestico avanzata negli anni 70 dal femminismo operaista. Del resto, reddito e salario diventano sovrapponibili finché invisibilità e non misurabilità restano caratteri distintivi del lavoro riproduttivo.
L’ombra lunga del lavoro riproduttivo nel mercato del lavoro globalizzato
In realtà la dicotomia produzione/riproduzione è assai più pervasiva di quanto non appaia guardandola ‘dal nord globale’. È una impalcatura ideologica non soltanto funzionale all’estrazione di valore al di fuori del mercato e oltre l’area del lavoro pagato, perché, come l’operaismo ha già da tempo chiarito, il modello ‘riproduttivo’ investe la ristrutturazione dello stesso mercato del lavoro. In maniera assolutamente concreta, mettendo direttamente al lavoro, in alcuni contesti, le stesse organizzazioni familiari.
E questo a partire dalle catene globali della cura, le prime ad essere modellate sull’opposizione produzione/riproduzione.
Lo statuto del lavoro di cura salariato è indirettamente determinato dal regime giuridico dell’accudimento familiare e ne mantiene tutti i tratti caratteristici, dalla percezione sociale di cui è oggetto alle condizioni materiali in cui si svolge.
Anche il lavoro di cura pagato non è mai assunto come un lavoro professionale, un vero lavoro. Soffre cioè della stessa sottovalutazione del lavoro riproduttivo informale. La matrice solidaristica del “lavoro casalingo”, ciò che porta alla sua gratuità, non misurabilità, etc. si traduce qui nella romanticizzazione della cura salariata, ma nel contempo nella sua stessa svalutazione, in quanto lavoro unskilled. Da una parte, è la tendenza a esaltare i tratti di affettività che possono caratterizzare la relazione fra caregiver e persona di cui si prende cura; dall’altra è questo stesso carattere a mostrarsi estraneo al cliché del lavoro professionale nel mercato: quanto può essere ‘vero lavoro’ un lavoro marcato da solidarietà umana e coinvolgimento emotivo, quando non da un vero e proprio legame affettivo come quello che può crearsi fra accudente e persona accudita?
Inoltre, come il “lavoro casalingo” anche la cura salariata si svolge nel chiuso delle case, con l’esito di isolare le lavoratrici e ostacolarne la presa di coscienza come categoria professionale (e come classe).
Questioni specifiche investono le catene globali della cura, come ad esempio, la distribuzione di lavoro di cura a monte e a valle della migrazione: come si ristruttura la cura nella famiglia di partenza? Quali altre soggettività vengono coinvolte, quanto individuate secondo linee di razza, classe e, soprattutto, genere? E come si riorganizza e distribuisce in quella di arrivo? Quanto di cura ancora pesa sulle donne del nord globale in termini di ‘carico mentale’? Quanta e quale emancipazione dal patriarcato produce? Ma soprattutto quale la valenza politica della relazione lavorativa fra lavoratrice e datrice di lavoro? Quanto c’è di solidarietà ‘fra donne’ e quanto di sfruttamento? Quest’ultimo, al di là delle intenzioni individuali, resta impresso - è in re ipsa, dicono i giuristi - in alcune regole del diritto dell’immigrazione: ad esempio, il double bind fra alloggio presso la famiglia di arrivo e il relativo certificato di residenza quale precondizione per il permesso di soggiorno condiziona in misura decisiva la libertà lavorativa della forza lavoro migrante producendo il rischio concreto di una condizione di lavoro forzato.
Ma anche al di là del caso della cura salariata, la dicotomia produzione/riproduzione investe ora i processi economici e l’intero mercato del lavoro nella costruzione delle catene globali del valore.
L’opposizione è ben presente nel diritto internazionale, a cominciare dalla separazione fra l’intervento sulle questioni sociali e ambientali, riproduttive in senso ampio, devoluto alle Nazioni Unite e l’azione delle istituzioni di Bretton Woods nel governo dell’economia globale. Questo assetto contribuisce ad una continua ridefinizione dei confini fra produzione e riproduzione rafforzando la vigenza della dicotomia, che risulta ancora decisiva nel diritto internazionale dell’economia sotto la spinta dalle istituzioni della globalizzazione, Banca Mondiale fra tutte. Questo è reso molto evidente dalle ricette di law & development promosse dalla WB, che promettono l’emancipazione da povertà e arretratezza all’insegna di parole d’ordine come crescita e sviluppo, quando poi le catene globali del valore e in particolare l’attività manifatturiera transnazionale è marcatamente basata sul modello ‘riproduttivo’ di un lavoro (soprattutto femminile) povero, informalizzato, svalutato e invisibilizzato, per lo più svolto fra le mura domestiche.
Le forme di estrazione e accumulazione sono spinte al massimo dai processi di finanziarizzazione e digitalizzazione dell’economia, mentre, sul versante più propriamente riproduttivo, l’azione delle agenzie delle Nazioni Unite e per i diritti umani è assai più debole. Ne sono una riprova le contraddizioni all’interno della Agenda ONU 2030 che se da una parte promuove l’uguaglianza di genere e il riconoscimento del lavoro di cura, dall’altra è anch’essa vittima della fascinazione di concetti come sviluppo e crescita, proposti come non solo di fatto ma anche in principio, irrinunciabili.
A questo proposito si deve anche notare che la pressione sulle donne per favorirne l’accesso al mercato del lavoro e all’imprenditoria (microcredito) non fa altro che invisibilizzare ancora una volta il lavoro domestico e di cura e aumentare esponenzialmente il rischio di depletion, di esaurimento delle risorse umane. Ciò che ovviamente si accompagna, in questi stessi contesti, allo sfruttamento, l’estrazione e l’esaurimento delle risorse naturali.
In realtà, particolarmente nel sud globale, i processi di estrazione e accumulazione producono un’ulteriore sovrapposizione e indistinzione di produzione e riproduzione, o, meglio, un continuum fra produzione e riproduzione: fra attività manifatturiere che si svolgono nelle case e estrazione di valore da intere piccole comunità e villaggi messe al lavoro, produzione, cura e consumo, famiglia e mercato si confondono. Le cucine e le camere da letto diventano parte della catena di montaggio nella fabbrica globale. Se molte e molti restano fuori dalla relazione incentrata sul lavoro salariato, ciò non significa che non siano dentro processi di estrazione del plusvalore. L’indistinzione fra produzione e riproduzione è tipica nell’economia informale; o, più precisamente, nell’economia che si fa informalizzata per meglio rispondere alle esigenze di crescita e sviluppo – ed estendere lo sfruttamento. Qui giocano dinamiche di invisibilizzazione analoghe a quelle viste a proposito della cura informale, ovviamente attraversate dalle linee del genere e della razza.
E qui si produce un’umanità disponibile e ridondante oltre che marginale ed esclusa (in primis dai diritti umani): lo sfruttamento, l’espropriazione delle risorse naturali, l’espulsione delle vite sono fenomeni simultanei in questo quadro complesso. Torna il tema della depletion, dell’esaurimento fisico di questa manodopera informale intrappolata nell’intreccio di produzione e riproduzione; esaurimento fisico che è a monte momento generativo di valore, con la vita umana è consumata e valorizzata dal capitale, e a valle il costo e lo ‘scarto’ di questo processo, con la produzione di un’umanità ‘inservibile’.
I corpi non alfa attraverso la lente della riproduzione sociale
A margine non può ignorarsi una ulteriore dimensione riproduttiva che con il mercato del lavoro ha una relazione irrisolta, ambigua, eccedente, investendo i corpi dal punto di vista della sessualità e della riproduzione biologica. Attraverso la lente della riproduzione sociale, assunta come metodo e categoria di analisi, le questioni dei diritti riproduttivi, del sexwork, della gpa si mostrano in una luce diversa, che va oltre il tema dell’autodeterminazione e dei suoi limiti.
È la dimensione materialista ad emergere prepotentemente, ciò che il discorso dei diritti non è sempre in grado di cogliere. Prendiamo ad esempio le limitazioni imposte dagli stati alla libertà delle donne di abortire. Un’analisi basata esclusivamente sulla compressione della libertà di autodeterminazione non mette a fuoco la dinamica di espropriazione del corpo e appropriazione di ‘utilità’ che gli stati, in questo modo, realizzano senza alcuna forma di compensazione o indennizzo. Il modello giuridico è quello dell’“espropriazione anomala”, atto attraverso cui lo stato espropria facoltà sostanziali del proprietario realizzando lo svuotamento del diritto senza trasferimento formale della titolarità. Nel caso dei limiti all’aborto gli stati espropriano la libera disponibilità del corpo femminile appropriandosi coattivamente delle ‘utilità’ connesse alla capacità generativa delle donne (ad es. aumento demografico) senza corrispondere alcun corrispettivo. È il tipico schema del lavoro riproduttivo che abbiamo visto all’opera a proposito di accudimento familiare.
C’è poi un tema più generale, che qui può essere solo accennato, e che riguarda l’affacciarsi della riproduzione biologica e della sessualità sul mercato. Lo spettro della mercificazione del corpo ispira misure proibizioniste, nel peggiore dei casi; nel migliore conduce alla teorizzazione di un’area protetta di non-mercato riservata a sesso e procreazione, in sostanza riproponendo l’isolamento della sfera della riproduzione dalla produzione come salvaguardia contro lo sfruttamento. Abbiamo fin qui chiarito però come e quanto la dicotomia produzione/riproduzione sia motore di sfruttamento senza bisogno di ritornarci su. Le voci critiche che nel dibattito femminista attaccano il biolavoro e il lavoro sessuale in nome della salvaguardia della dignità femminile ‘curiosamente’ ignorano le molteplici forme di sfruttamento e offesa della dignità cui molte donne sono costantemente esposte fra produzione e riproduzione. Non è superfluo ricordare la convergenza di fatto con le posizioni più apertamente reazionarie e patriarcali in tema di governo del corpo femminile e materno.
Nessuna ricetta, qualche possibile strategia
Il conflitto capitale/lavoro va ben oltre il lavoro salariato, coinvolge integralmente la sfera della riproduzione nel suo continuo riconfigurarsi in relazione al lavoro ‘vero’, produttivo. E allora le soggettività potenzialmente sovversive sono oggi plurali, disseminate lungo tutto il continuum che va dalla produzione nella fabbrica all’accudimento familiare e attraversa le forme plurime di sfruttamento a cavallo del confine mobile fra produzione e riproduzione: le donne costrette nell’accudimento, le soggettività razzializzate ai margini del lavoro salariato, e molte altre. Ovviamente la prima strategia non può non essere quella delle alleanze fra queste molteplici soggettività. La possibilità che un meccanismo di innesco, o forse un semplice segnale di fattibilità, possa trovarsi in forme di strategic litigation come quella dapprima suggerita a proposito di depletion e misurabilità della cura non è del tutto remota. Misurare il lavoro riproduttivo per rompere l’invisibilizzazione e l’isolamento di chi lo svolge può importare una prima forma di organizzazione in vista della costruzione delle alleanze necessarie.

© Martha Rosler, Semiotics of the Kitchen, 1975